C'ERA UNA VOLTA LA NAJA




UN RACCONTO UNO DEI TANTI

Ancora mi succede. Nel pieno rimbombante del sogno, sono in una caserma. Non è la solita, non è una delle caserme che ho frequentato da militare. Ha il tetto basso come un seminterrato, anzi è un seminterrato. Su questo tetto poco più in alto delle nostre teste, che ci racchiude come in una scatola di soldatini semoventi, quasi fossimo delle opere di uno scultore postmoderno e iperrealista, una plafoniera enorme, cioè lunghissima ma stretta non più di mezzo metro, che emette una luce spettrale. Nella camerata-seminterrato ci sono solo delle brande abbastanza classiche, con lenzuola e coperte verdi militare; il pavimento è di linoleum chiaro. L’atmosfera è di cupa rassegnazione. Sono seduto su una delle brande, in mutandoni di lana e maglietta verde (c’è una foto che mi ritrae in questa mise nella realtà, seduto nella mia caserma del CAR assieme a un caporalmaggiore e a un altro tizio in pigiamino di lana portato direttamente dal supermercato sotto casa), ho la testa abbassata del calciatore seduto in panchina dopo una sostituzione non gradita ma necessaria per mancanza di fiato. Ho già un’età abbastanza avanzata, almeno quarant’anni, e sono di nuovo a naja, per l’ennesima volta, in un eterno progressivo richiamo alle armi. Sono il comandante (tenente, nulla di più) di un gruppo di ragazzi che mi circondano; che non sono più ragazzi neanche loro, a guardarli anche distrattamente: alcuni hanno messo su pancia, qualcuno ha i capelli grigi: sono tutti ultratrentenni, magari con mogli e figli, anche loro richiamati alle armi, riservisti del nulla. C’è una guerra in atto? Siamo qui soltanto per esercitazioni annuali, come si fa nell’esercito svizzero nel quale il militare non finisce se non molto avanti nell’età? Non lo sappiamo. Forse è in atto la guerra definitiva, quella che, col suo chiamarsi “terza” potrà dirsi perfetta: una guerra perfetta è tale solo se porta alla distruzione totale, universale. Sì, non sappiamo perché siamo chiusi in quell’antro squadrato e gigantesco. In noi soltanto una corrente elettrica a basso voltaggio, che ci percuote leggermente il petto, fino allo stomaco; qualcosa di più energico dello sfarfallio dell’ansia tipica. E’ il non sapere dove si è esattamente, e per quale scopo. E’ questo senso di estraneità e al contempo di riconoscimento di una condizione subalterna a qualunque cosa. Sentiamo ancora una volta, ciascuno per suo conto ma sintonizzato con gli altri tramite un’empatia dolorosa, che la vita militare è la vita della servitù necessaria, dell’estrema ratio, quando la civiltà non riesce più a diffondersi con mezzi pacifici e la convivenza tra gli uomini ha fatto deflagrare il bubbone di un’impossibilità di essere veramente umani. Alzo la testa, ricordo che c’è da fare una specie di appello: chiamo stancamente gli uomini a raccolta davanti a una scrivania malandata, dietro la quale c’è una sedia di ferro e gomma come ce ne sono nelle scuole a disposizione del personale docente. Ma non mi siedo: sono stato seduto in una specie di pesante e arcigna catalessi fino a ora. Prendo finalmente un foglio battuto a macchina un po’ in nero e un po’ in rosso, dunque da qualcuno che aveva a disposizione una macchina da scrivere difettosa o non aveva più un rullino d’inchiostro di ricambio, e scandisco dei nomi che non ricordo fin da subito. I ragazzi a uno a uno alzano stancamente il braccio.
Finito l’appello, torniamo a sederci tutti quanti sui bordi delle nostre brande. La luce lentamente s’abbassa, come la luce di un palco teatrale prima della rappresentazione…
Questo è uno dei miei sogni ricorrenti. E appartiene proprio a quella che ho chiamato dentro di me “follia del richiamo”. Negli anni che mi separano dalla mia esperienza militare – ormai ventisei – il richiamo alle armi è stato diverso, e gradatamente è cambiato posso dire il ritmo di questa chiamata: nei primi anni le situazioni erano molto più aderenti alla realtà e alla mia giovane età: tornavo grosso modo sulle stesse orme che avevo lasciato, ripetevo con certi accorgimenti dei gesti che avevo veramente compiuto. Sempre più passando il tempo, i nuovi sogni del richiamo quasi s’allungavano in uno spasimo disperato, s’allentavano in un’attesa; succedevano via via sempre meno cose, i gesti erano sempre più lenti, quasi al rallentatore, e soprattutto veniva a mancare sempre più uno scopo, un amo a cui tendere, una sporca prima seconda e ultima meta da raggiungere. Sempre più, mi trovavo su campi addirittura di battaglia, ma spogli di qualsiasi combattimento, anche tentato, o in poligoni di tiro dove non succedeva quasi nulla. Fino agli ultimi anni, nel seminterrato dell’appello seguito da un’eterna attesa di non si sapeva che, seduti sulle brande.
Nella realtà era proprio l’attesa la compagna insaziabile delle nostre giornate. Il mio servizio militare è durato poco meno di 12 mesi (grazie al precongedo), da 18 marzo 1982 al 3 febbraio 1983. Iniziavano gli anni Ottanta del ludibrio luccicante, e io, ventunenne per nulla d’assalto, mi facevo trovare al 14mo Battaglione Bersaglieri Sernaglia, di Alberga, sulla costa ligure. Sentii subito l’acido della situazione, addentai il fiele della mensa, la roba ci veniva scodellata brutalmente su dei vassoi d’alluminio. Mangiavamo in una mensa enorme, nella quale le voci dei ragazzi quasi picchiavano l’aria circostante. Lunghe file per tutto: per il vestiario, il casermaggio, il rancio, il contrappello la sera, quando un sottotenente, che spesso aveva la tua stessa età, passava in rassegna noi ragazzi in piedi davanti alla branda e chiedeva: “Lei chi è?”. E il malcapitato doveva urlare con tutto il fiato che aveva in gola grado, nome, cognome, compagnia, battaglione. Potevi aver urlato come il Tony Dallara degli esordi, o come una fan dei Beatles durante uno storico concerto, ma non c’era verso: il tenentino – che magari nell’altra vita, quella civile, avresti senza nulla togliere preso immediatamente a calci – ti urlava in faccia: “Non sento! Chi è lei?!”. E tu ripetevi la solfa, cercando di alzare il tono di voce, pieno di rabbia per quell’esibizione che sentivi umiliante.
Il CAR (Centro Addestramento Reclute) durava circa un mese. Quando stavi abituandoti, bene o male, a quella vita fatta di marce lunghissime per la piazza d’armi, d’esercitazioni con il tuo fucile Garand del 1941 (usato dagli americani nella seconda guerra mondiale), quando nelle sedute di ginnastica, sempre sul piazzale, il tuo sottotenente ti faceva stringere le mani decine di volte senza interruzione e con il busto in tensione per rinforzare gli addominali urlando”…E chi si ferma, è un segaiuolo!”, quando con i commilitoni della tua stessa covata – o scaglione – si cominciava a ragionare, quando i “nonni” della caserma avevano cominciato a insultarti di meno perché avevano cominciato ad usarti un po’ di rispetto, era ora di sloggiare.
E così io partii per il Friuli, in una caserma di Bersaglieri. Ma ero un autiere, un autista di quei camion assurdi a quattro ruote motrici e senza servosterzo denominati ACM 52 (autocarro medio anno di ideazione 1952). Guidarli non era facile, girare quel volante immenso abbisognava di una certa forza nelle braccia, soprattutto negli spazi stretti e a velocità moderata. La vita si svolgeva tra l’adunata (“Si dia inizio alla cerimonia!”, urlava il nostro capitano Antonio Bronzi, un istriano duro come il ferro, all’alzabandiera), la corsa, la ginnastica, la colazione col caffellatte che si diceva pieno di bromuro (per calmare i nostri bollenti spiriti; ma noi, ben prima di Bossi “ce l’avevamo duro” lo stesso, vista l’età) i servizi di trasporto truppa ma soprattutto di materiali alle altre caserme della zona, la compilazione dei “fogli di marcia”, le battute, gli scherzi, la strana allegria e i momenti di atroce malinconia, durante i quali guardavo la mia vita come se ne fossi lo spettatore ansioso, pauroso addirittura di vedere qualcosa che non si doveva vedere. E poi i campi nelle tende al freddo, i campi a Capo Teulada – detta “Forte Apache”- nel poligono di tiro, le baracche, i sardi allo spaccio che urlavano ubriachi fino a tardi (come ho raccontato nel mio ultimo romanzo Era mio padre), il capitano Bronzi che ci chiamava “i sardi” e ci dava del “mona” a tamburo battente cercando di “educarci”. Ricordo le poche visite a casa, tre, mentre altri a casa ci andavano più spesso, e tu una vaga idea del perché loro avevano riconosciuti più privilegi di te ce l’avevi, ma te ne stavi zitto, per non peggiorare ancor di più la tua situazione. La vita militare è fatta di attesa, così io l’ho vissuta. Mandato a fare la guardia durante le partite più importanti della Nazionale nei mondiali di Spagna, lasciato in caserma mentre altri potevano uscire. E sempre nessun lamento, sempre a stringerli, i denti, perché l’onore di un uomo lo si misura dentro se stessi fin dall’inizio della sua traversata umana. Non c’è pietà per chi piange; e soprattutto non c’è una vera pietà che chi piange può dare a se stesso. I suicidi si moltiplicavano: ragazzi che, saliti in altana per una guardia, soldati sconfitti, si cacciavano il Garand in gola per l’ultimo sparo.
Il giorno del mio congedo, ad accompagnarmi alla porta carraia c’erano tre semplici ragazzi come me: due di loro piangevano. Io piansi solo più tardi, quasi distrattamente, sul treno che mi riportava finalmente a casa.
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